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C’è un dettaglio curioso:
nelle liturgie, il pane viene spezzato davanti a tutti.
Si vede.
Si sente.
A volte scricchiola.
È chiaro che si rompe, che si divide, che si distribuisce.

Ma il sangue non si versa mai davvero.
Non si sente.
Non si vede.
Non si muove.
Sta lì, nel calice. Inaccessibile. Statico. Come una reliquia.
Come un corpo che non deve sanguinare.

E questa cosa,
questo piccolo silenzio del sangue,
ci racconta più di quanto vorremmo ammettere.

Siamo diventati bravissimi a parlare del sacrificio,
ma sempre puliticompostiastratti.
Abbiamo fatto del sangue un simbolo,
una metafora,
una parola da trattare con pinzette liturgiche.

Eppure, il sangue vero non chiede il permesso.
Arriva.
Sporca.
Segna.
Fa paura.
Ma dice la verità.

E mi chiedo:
forse abbiamo paura che il sangue ci somigli troppo.
Che ci ricordi i nostri limiti,
le nostre malattie,
le nostre mestruazioni,
le nostre ferite aperte,
le guerre che abbiamo ignorato,
i corpi che abbiamo seppellito senza guardarli in faccia.

Forse il sangue è scomparso
perché ci imbarazza.
Perché è troppo reale.
Troppo umano.
Troppo terreno per un Dio che preferiamo aereo.
Troppo femminile, anche.

Chi ha assistito a un parto,
senza filtri, senza retorica, senza la playlist su Spotify e il filtro seppia,
sa che il sangue non è simbolico.
Non è elegante.
Non è poetico.
È sconvolgente.

Il sangue del parto non si può ignorare.
Non si può far finta che non ci sia.
Non si può deodorare.
Non si può teologizzare senza prima sporcarsi le mani.

E lì, in mezzo a quel sangue,
si nasce.
Si muore.
Si urla.
Si ama.

Quando Gesù dice:
“Questo è il mio sangue, versato per voi e per tutti,”
non sta evocando un'idea poetica.
Sta annunciando una realtà fisica.

Sta dicendo:

“Questo è quello che lascio sulla terra.
Questo è il mio segno indelebile.
Il mio corpo tornerà al Padre,
ma il mio sangue resterà con voi.
Dentro la storia.
Dentro le ferite.
Dentro la polvere.”

Il corpo di Cristo è glorificato,
risorto, assunto, oltre il tempo.
Ma il sangue?
Il sangue è rimasto.

Intriso nel sudario.
Assorbito nella terra ai piedi della croce.
Macchiato nelle lenzuola della storia.
Come il sangue di ogni martire,
di ogni donna,
di ogni essere umano che ha sofferto sulla carne.

E allora sì,
forse abbiamo tolto il sangue perché 
ci ricordava troppo che Dio è passato di qui davvero.
Che si è lasciato toccare, ferire, sporcare.
Che ha lasciato tracce, non metafore.
E quelle tracce non vanno incensate.
Vanno viste.
Vanno riconosciute.
Vanno onorate.

Abbiamo paura del sangue,
perché non possiamo controllarlo.
Perché si versa dappertutto.
Perché ci sporca.
Perché ci ricorda che nessuno viene al mondo senza fatica, senza ferite, senza carne.

Ma è ora di smetterla con il silenzio educato.
Con il simbolo reso invisibile.
Con i calici nascosti e i rituali disidratati.

Giovanni, il profeta tonante, ha battezzato con acqua.
Con la voce nel deserto, col fiume che scorreva senza fretta.
Ma sapeva che sarebbe arrivato Qualcuno.
Qualcuno che non avrebbe immerso solo nell’acqua,
ma avrebbe versato tutto sé stesso.

Verrà qualcuno che battezzerà non con acqua, ma in spirito.
Qualcuno che verrà a battezzare con il sangue. 
È sangue — ma è anche Spirito.
È gioia — ma costa la vita.

Il vino della festa diventa vino della Passione.
Quel calice, che all’inizio rallegra,
durante fa comunità,
alla fine redime.

È il vino che non si beve più solo tra amici,
è il vino per tutti,
che si versa sugli altari,
che scorre nelle vene della Chiesa,
che sgorga dalle labbra dei peccatori.

Quel vino è Cristo.
Ed è quel vino che oggi ci manca quando la liturgia è solo parola.
Quando celebriamo senza brindare.
Perché finché il sangue non torna visibile,
la redenzione resta sospesa, e la fede troppo pulita per cambiare davvero qualcosa.

Il nostro vino — il nostro amore — oggi sa di attesa.
Ma un giorno tornerà.
E sarà un vino nuovo.
Non più in bottiglia.
Ma versato.
Per sempre.

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