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In questa lezione parliamo della crisi della Cina nell'età della dinastia Qing. Dopo un isolamento plurisecolare, il Celeste Impero è convinto a suon di cannonate ad aprire il proprio ricco mercato, costituito da centinaia di milioni di potenziali consumatori, ai commerci con l'Occidente industrializzato, desideroso di trovare uno sbocco ad una produzione crescente di beni di consumo. Nonostante la capacità di penetrazione economica di giganteschi imperi coloniali come quello inglese e francese, la Cina non si limita però ad essere un passivo mercato di assorbimento dei manufatti occidentali: essa è a sua volta una potenza manifatturiera, capace di rispondere con ingenti esportazioni di oggetti pregiati introvabili in Europa. Ne risulta, paradossalmente, uno sbilancio commerciale dei Paesi occidentali: la Gran Bretagna importa più di quanto non esporti in Cina. Questo mette a repentaglio la solidità della sterlina come valuta di riferimento del sistema monetario mondiale, ancora facente aggio sull'oro. Per rimediare alla potenziale destabilizzazione, l'Inghilterra incoraggerà l'esportazione in Cina di oppio, prodotto nelle sue colonie orientali: alimentare il vizio dei cinesi per consentire di riportare la bilancia commerciale in equilibrio. Il tentativo del governo cinese di bloccare questo traffico, combattendo la diffusione del consumo di droga nelle giovani generazioni, produce due guerre dell'oppio, combattute tra il 1839-42 e il 1856-60, entrambe perse dall'impero cinese, che entra nel suo "secolo della vergogna" e cede Hong Kong. Verso la fine del XIX secolo la rivolta dei Boxer, di ispirazione xenofoba, tradisce il risentimento cinese verso l'Occidente e il montante nazionalismo, anche se finirà con l'ennesima sconfitta dello stato orientale, costretto ad accettare la dominazione delle potenze europee.