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Jeremy Bentham è il sistematore della morale utilitaristica. Quest’ultima, a differenza delle teorie morali deontologiche, fa risiedere il bene e il male non nell’azione in sé o nell’intenzione che la determina, bensì nelle conseguenze dell’azione. Ne consegue la relativizzazione della morale, giacché una medesima azione può essere considerata giusta o ingiusta in base alle circostanze. La massima utilitaristica che presiede la scelta morale prescrive il conseguimento della “massima felicità per il maggior numero di persone”. La felicità è identificata con il piacere. Al fine di ottenere la massimizzazione della felicità generale, bisogna impegnarsi in un complesso calcolo delle conseguenze di ogni azione: tale algebra morale prende in considerazione diversi parametri: non solo l’intensità del piacere, ma anche la sua durata, la sua certezza, la sua capacità di evitare dolori, e così via. Così potrei, ad esempio, preferire un piacere meno forte ma più prolungato nel tempo, oppure un piacere meno forte ma esente dal rischio di attirare infelicità su di me.
Vengono esaminate le principali obiezioni all’utilitarismo, sostenute tra gli altri da Alessandro Manzoni. Gli avversari di Bentham mettono in evidenza la difficoltà, se non l’impossibilità, di calcolare tutte le possibili conseguenze delle differenti azioni, che rende totalmente incerta la decisione, e il rischio di giustificare il crimine, anche il più efferato, se esso procura felicità a molte persone. Bentham, che era anche un giurista, risponde che il calcolo morale non può essere affidato al singolo individuo (il che creerebbe anarchia e disgregazione sociale), bensì al legislatore che elabora leggi in base all’interesse generale.