Per comprendere le idee di Kierkegaard non si può prescindere dalla riflessione sulle sue singolari scelte stilistiche e comunicative. Egli distingue tra comunicazione diretta (costituita dagli interventi pubblici, in buona parte articoli comparsi sul giornale “Il momento”, da lui stesso fondato e scritto), e la comunicazione indiretta, realizzata nelle opere a stampa, caratterizzate da pseudonimi che incarnano ciascuno una possibilità di esistenza, e da differenti varietà di scrittura. Kierkegaard in questo modo cerca di indirizzarsi non ad un pubblico indistinto, ma ad individui singoli, che non possono essere appiattiti e omologati. Kierkegaard mira a comunicare ai lettori non idee astratte, ma un saper fare; non una filosofia teoretica, ma bensì una filosofia che rispecchia la vita pratica del singolo, che si esprime attraverso l’esistenza concreta. Sull’esempio di Socrate e Cristo, che non hanno avuto bisogno di scrivere. Per questo la comunicazione indiretta, la comunicazione in maschera, viene anche chiamata comunicazione di esistenza. Il lettore dovrebbe essere attirato in maniera sottile, attraverso un “colpire alle spalle” finalizzato all’esercizio del cristianesimo. Tali scelte di scrittura, criticabili quanto si vuole, nascono anche dal rifiuto da parte del filosofo nei confronti dalla falsa oggettività del giornalismo di massa nella società liberale, che mira non alla verità ma alla rassicurazione. La comunicazione di massa è fasulla e ingannevole, giacché chi scrive non “reduplica” nella sua esistenza quel che dice. Le critiche di Kierkegaard non risparmiano il cristianesimo del suo tempo, a suo giudizio colpevole di essersi mondanizzato, imborghesito, ridotto a declamazioni ipocrite in contrasto con la condotta di vita dei sedicenti cristiani.