Negli Stati Uniti è in corso un dibattito sullo stato di salute della literary fiction, quella che noi in Italia chiamiamo semplicemente narrativa (o narrativa letteraria), ovvero quell’insieme di opere non di genere (quindi non romanzi western, horror e così via, men che meno saggistica naturalmente) che usano la scrittura per misurarsi con temi dell’esistenza umana e del presente, e creano personaggi, intrecci e forme che tendono a un ideale artistico. O, almeno, a quello che l’arte dovrebbe suscitare, spesso in contrapposizione a un proposito soltanto commerciale (le due cose non sono sempre così separate, spesso si mischiano e si confondono in termini di conoscenza, introspezione e intrattenimento, ma ci siamo capiti).
Il dibattito parte da una considerazione che potremmo fare anche nostra, secondo me: negli ultimi vent’anni la percentuale di libri di un certo rilievo letterario è drasticamente diminuita. Sia in termini di vendite (quindi di quantità) che in termini di qualità: i libri che vengono letti di più e dominano tanto le classifiche quanto gli scaffali delle librerie sono a) sempre gli stessi o degli stessi autori/autrici, b) di genere (horror, fantasy, poliziesco, rosa, storico-complottistico, fantascientifico, erotico ecc.), c) ripetitivi se non del tutto prevedibili nel modo in cui viene costruita e presentata la trama, forse potremmo dire: rassicuranti e poco sperimentali.
Questa considerazione, oltre che essere frutto di un’analisi del mercato editoriale odierno, prende le mosse anche dall’osservazione di alcuni dati del passato: fino agli anni Novanta era consuetudine che in cima alle classifiche di narrativa americana, la literary fiction ci arrivasse eccome e ci rimanesse anche per diverso tempo. Capitava con autori e autrici del calibro di Philip Roth, Truman Capote, Vladimir Nabokov, Toni Morrison, persino alcuni critici come Susan Sontag e Edmund Wilson, e con opere che non erano immediatamente “godibili” in termini di intrattenimento ma, al contrario, presentavano diverse complessità di forma, contenuto e messaggio.
Che cosa è successo negli ultimi decenni, dunque? Come mai oggi negli Stati Uniti il “romanzo” non ha più lo stesso valore né la stessa funzione che aveva qualche decennio fa?
La risposta tiene insieme diversi fattori, che provo a riportare qui sotto il più comprensibilmente possibile:
* prima Internet e poi i social network hanno accorciato la soglia dell’attenzione e per il pubblico è molto più difficile di una volta dedicarsi completamente a una sola attività, per molto tempo, in solitudine, a maggior ragione se questa non presenta nessuno strappo o escamotage formale che tenga desta la concentrazione di chi legge (ho letto articoli piuttosto allarmanti che raccontano come persino nelle università americane della Ivy League i ragazzi e le ragazze non riescano più a leggere un libro per intero durante i corsi di Inglese o altre letterature);
* a differenza dell’era pre-digitale, non è più alla letteratura che ci si affida per trovare una chiave di interpretazione della realtà o anche una semplice rappresentazione complessa di essa: gli ultimi vent’anni sono stati l’era delle serie tv e questo fenomeno ha coinvolto certamente l’audience ma in primis la parte autoriale. È probabile, infatti, che nelle file degli autori e delle autrici degli show per la tv siano state impiegate alcune delle migliori penne del nostro presente;
* per tutto il Novecento negli Stati Uniti vigeva una consuetudine molto interessante: i magazine e i giornali di ogni tipo ingaggiavano scrittori e scrittrici affinché producessero un racconto, un reportage o un estratto da presentare al pubblico, proponendosi quindi come luogo di sperimentazione, di dibattito e di - chiamiamola - palestra pubblica dove creare cultura. Alzando così l’asticella: più gli scrittori e le scrittrici erano in gamba, più il magazine ne veniva influenzato positivamente, e viceversa. Lo faceva Playboy così come il New Yorker, dando vita a un circolo virtuoso che è stato per lungo tempo una delle cose migliori del mondo editoriale statunitense. Solo che a un certo punto (il punto di Internet, di base) la forza dei magazine è diminuita considerevolmente, sia come punti di riferimento dell’informazione e della divulgazione pubblica che come fonte di guadagno per gli autori e le autrici coinvolte. Oggi, non solo i magazine non hanno più i soldi per contenuti del genere, ma spesso non esistono proprio più i magazine stessi. Ne sono rimasti troppo pochi affinché questo circolo possa dirsi ancora virtuoso. Al loro posto sono proliferate le scuole di scrittura creativa che, tuttavia, non risultano altrettanto libere e sperimentali: al loro interno si tende a insegnare un modello di scrittura piuttosto che dare gli strumenti per sperimentare con quelli esistenti e crearne di nuovi, che siano anche contraddittori o poco vendibili. Questo soprattutto perché è il clima culturale generale del Paese ad essere molto cambiato. E qui arriviamo al tasto a mio avviso più dolente.
* A fronte dell’impoverimento generale illustrato fin qui c’è stato un arricchimento, che tuttavia non sembra aver giovato alla qualità della narrativa letteraria americana contemporanea. La rivoluzione culturale degli ultimi vent’anni ha forzato le porte del mercato editoriale per farci entrare voci, penne e storie che prima ne venivano escluse (evivaiddio!): donne, minoranze etniche, comunità queer eccetera. Come sappiamo, però, tale rivoluzione è arrivata insieme ad alcuni imperativi che portano la scrittura esattamente nella direzione contraria alla sperimentazione letteraria e alla ricerca espressiva, gli imperativi che oggi si definiscono woke. È diventato più importante scrivere e pubblicare storie “giuste” piuttosto che creare storie disturbanti (c’è unanimità nel dire che un capolavoro come American Psycho di Bret Easton Ellis oggi non sarebbe stato dato alle stampe), difficili, scomode, qualitativamente alte ma “sbagliate” perché sono considerati sbagliati i contenuti al loro interno.
Bisogna essere capite e apprezzati dal proprio pubblico (che molto spesso negli Stati Uniti coincide con quello cosiddetto liberal), più e prima che essere liberi, in contraddizione, sfrontate. Questa dittatura del conformismo tipica del nostro tempo fa sì che oggi, leggendo molta letteratura statunitense contemporanea, anche di diversa provenienza sociale, geografica o esistenziale, sembra di leggere sempre la stessa storia e di provare sempre le stesse emozioni.
Male.
If the social pressures right around you are powerful, you’re going to write for the coterie of people who consciously or unconsciously enforce them, and of course, your writing will be small and just like everyone else’s. If you write in fear of social exile, your villains will suck. You’ll assign them a few one-dimensional malevolences, but you won’t make them compelling and, in their dark way, seductive.
Un articolo che contiene molte delle osservazioni riportate sopra e che puoi leggere come riferimento è quello di David Brooks uscito lo scorso luglio sul New York Times. Ho tratto da lì la citazione che leggi qui sopra. Il pezzo ha destato molte reazioni vivaci di cui alcune negative: la più interessante è stata quella della scrittrice Ann Patchett che ha risposto con questo video. Prova a dargli un’occhiata.
Ora, per tornare a noi, ti dico cosa penso io a questo punto, cercando di trarre una conclusione che vuole anche rispondere a un prolungato e abbondante senso di frustrazione provato da me medesima negli ultimi anni leggendo tanti libri americani freschi di stampa: è vero, sembra di leggere sempre la stessa storia, spesso con gli stessi ingredienti formali e di contenuto. Ed è vero: la letterarietà di molta narrativa americana (non tutta, naturalmente, ma abbastanza da rilevare una tendenza) sta annaspando, nonostante - come ci mostra Ann Patchett - non manchino bei libri usciti negli ultimi anni da autori e autrici sotto i 65 anni.
Ciò che a mio avviso manca e manca tantissimo non è la presenza di bei libri, infatti, ma di opere. Opere di letteratura. Con, per dirla con Brooks, dei personaggi cattivi complessi e seducenti, ma ancor prima dei temi che vadano a scavare in profondità e lontano, delle reti di sicurezza fatte a pezzi (soprattutto quella che vuole compiacere il proprio pubblico di riferimento o il proprio editore) così come i margini di una facile comprensione, un lavoro sul linguaggio che vada al di là dello stile flat (piatto) che caratterizza ormai quasi la totalità dei libri di provenienza USA, un tuffo nel fondo oscuro dell’attualità per trarne turbamento, un intervento consapevole sull’intreccio che sia anche un esame di coscienza personale e collettivo, il coraggio di osare a nome anche di chi non ci piace. Teniamo apertissimo l’accesso al mercato editoriale, naturalmente, ma facciamolo con un proposito di qualità.
Certo - e qui chiudo - l’assenza totale di critica letteraria rende tutto ancora più complesso: è molto difficile, se non impossibile, orientarsi nel rumore dei blurb, dei social, delle fascette, delle recensioni sempre positive, degli accordi con gli uffici stampa, dei contratti svilenti ma comunque sempre troppi. L’industria editoriale fa tanto casino per niente. Gli autori e le autrici perdono punti di riferimento importanti (e non parlo degli autori maschi etero che dominavano il mercato dei libri fino a pochi anni fa, sto parlando degli strumenti del mestiere, di cui la critica letteraria è prima di tutto maestra) mentre i lettori e le lettrici finiscono per confondere il rassicurante con il bello e il bello con il letterario.
Buona fortuna.
A proposito di libri
Il percorso di LIT, il bookclub della McMusa, si sta raffinando intorno ad alcuni filoni che riguardano l’attualità degli Stati Uniti, per capirla e anche digerirla meglio. Uno di questi riguarda l’esplorazione del femminile e della vita delle donne in generale: l’ultimo romanzo grazie al quale ne abbiamo parlato è stato A quattro zampe di Miranda July. Ecco, per me questo libro è un esempio perfetto della crisi di cui ho parlato oggi: io l’ho stroncato qui, il gruppo di lettura ne ha tratto una discussione molto intensa e interessante qui, in cui non sono mancati anche giudizi positivi.
A settembre riprendiamo il filone del West, il territorio e il tempo dove gli Stati Uniti hanno piantato le proprie radici culturali e soprattutto la propria mitologia (che è ben altra cosa rispetto alla realtà storica, come sappiamo), con Il falco di Hernan Diaz, autore che nel 2023 ha vinto il Pulitzer per il suo altro romanzo, Trust. Vedremo cosa ci regalerà: lui è cresciuto tra Argentina e Svezia.
Tra due sabati ci risentiamo qui con un altro approfondimento sull’argomento, questa volta più specifico, intorno a un solo romanzo. E che romanzo: 1300 pagine di Diluvio, di Stephen Markley. Ho molto da dire (ne citerò anche altri, per offrire a questa riflessione degli esempi concreti).
Intanto grazie per avermi letta fin qui oggi, se vuoi iscriverti al bookclub basta cliccare qui, se invece vuoi dire la tua sul dibattito in corso i commenti sono aperti.
Ciao!
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