Ieri Elettra mi ha chiesto: «Papà, quali sono le cose che ti piacciono di più nella vita?»
«Che intendi?»
«Le cose da fare.»
Ho questo continuo dubbio: qualsiasi risposta io dia a mia figlia deve essere soppesata, importante, con un senso di responsabilità nei confronti delle prospettive che decido di aprire o chiudere. In fondo, è questo il ruolo di un genitore attento, no?
Dopo alcuni secondi, rispondo: «Creare.»
Lei era seduta al grande tavolo di cristallo del salone a fare i compiti, io ero sul divano, guardavo la TV e le davo le spalle. Non mi sono girato, ma aspettavo di sapere cosa avrebbe detto.
«E la seconda?»
Sorrido.
«La seconda… giocare.»
Creare e giocare. In quella risposta penso di esserci tutto io, nei miei limiti e nella mia dolce follia.
«Ma giocare in che senso?» mi chiede lei.
«Giocare… ai videogiochi, a scacchi, ai giochi. Anche recitare è un gioco. In inglese si dice ‘to play’.»
Insomma, come spesso succede, i figli ci costringono a guardarci allo specchio come fossimo estranei a noi stessi, consapevoli però del ruolo importante che ricopriamo. Non so se ho fatto bene a dirle queste cose. Avrei potuto essere più furbo, dirle «essere brava a fare i compiti» oppure «ubbidire a mamma e papà», ma non ci riesco. Sono come mia madre: per me, Elettra è una persona che merita il mio rispetto e la mia assoluta onestà. La tratto come un’adulta (non in tutto, ma con quel tipo di rispetto) perché penso che sia l’unico modo affinché lo diventi davvero. Essere responsabile delle proprie azioni, di ciò che si dice o che si fa, e anche di ciò che si desidera.
Se non lo conoscete, c’è un filosofo francese, René Girard, che parla del processo mimetico e di come l’imitazione sia il punto iniziale dell’apprendimento di ogni essere umano. Ciò che fanno i nostri figli è ciò che vedono fare a noi. Per questo la loro esistenza è una scure alla nostra coscienza: ci costringono a vedere ciò che siamo, sempre che ammettiamo di poterlo vedere. Sempre che teniamo gli occhi aperti. Io lo faccio, ci provo con tutto me stesso. Provo a insegnarle ciò che ho imparato in un’altra età.
Per esempio, stamattina, mentre la accompagnavo a scuola, mi ha chiesto: «Papà, ma tra una cosa facile e una cosa difficile, cosa è meglio scegliere?»
Chi mi conosce sa che la risposta è fin troppo ovvia. Penso lo sia per tutti. Ma la domanda non è affatto scontata. In realtà, un bambino vi dirà sempre «la facile», perché è la scelta «più facile». Ed ecco che scatta in me il paladino della scoperta, del superamento di se stessi e dei propri limiti.
«Sempre la scelta difficile, amore mio.»
«Perché?»
«Perché è quella che ti farà crescere. Sai, è proprio quando dici che una cosa è difficile che stai migliorando. Prima, non stavi facendo nulla.»
Questo insegnamento, così prezioso, mi fu donato da uno dei miei maestri di regia, Matthias Langhoff, che, dopo due anni di collaborazione, mi lasciò un biglietto che tengo nel portafoglio e nel cuore, ogni minuto della mia vita qui: «[…] È proprio quando dici ‘è troppo’ che il lavoro inizia. […]»
Un mantra che mi ha costretto a superarmi, a cercare di trovare luoghi difficili, a spingermi là dove la mia logica non mi avrebbe mai portato.
«Supera te stessa, amore mio. È questa la vita.»
Alla prossima pagina.