I miei nonni toscani avevano un ristorante. Mio padre, cresciuto in quell’ambiente, ha poi intrapreso una strada completamente diversa. È partito per la Francia a studiare matematica, per poi finire nell’informatica (ecco spiegato il mio lato tecnologico). Io, invece, come sapete, mi muovo nell’arte di raccontare storie.
Ma c’è una cosa che è passata di generazione in generazione senza perdere il proprio smalto: l’amore per la cucina. Quella italiana, tradizionale, che sia mio nonno o mia nonna preparavano con tanta pazienza — ore ai fornelli, sobbolliture lente, crostini toscani, agnello al forno, lasagne (li troverete tra le pagine de L’Anello di Saturno) — ma anche cucina internazionale. Mio padre, infatti, ha portato in casa il cous cous, il curry e un’infinità di piatti asiatici, proprio come Alberto nella saga.
Insomma, ho ricevuto un meraviglioso regalo genealogico: il gusto. Lo considero un elemento fondamentale della mia visione di ciò che è l’arte. Se ci pensate, la forma d’arte più profonda che abbiamo è proprio la cucina. Un’opera che viene assorbita in toto dallo spettatore, che la fa letteralmente sua. Proprio come nella buona arte, una buona pietanza richiede spesso un lungo tempo di cottura, per fare in modo che gli atomi si amalgamino, proprio come le parole e i pensieri di un libro.
E poi, anche l’occhio vuole la sua parte. Si mangia con lo sguardo, con l’olfatto, poi col palato e infine con il corpo. Raccoglie molti dei nostri sensi.
Per chi cominciasse a leggermi ora, ho una teoria per la buona scrittura, che chiamo la tecnica della pizza. Una buona storia è fatta di ingredienti semplici che insieme creano reazioni chimiche interessanti: acqua, farina, sale e poi… tempo. Serve la fermentazione, che la fa lievitare in pasta madre. E lì inizia il lavoro manuale: impastare, stendere, ornare di gusto e ingredienti, cuocere. E infine, l’impiattamento.
Spesso ritrovo in colleghi, attori e non, questo piacere per la cucina. In Italia, soprattutto, c’è un amore per la tavola, per la condivisione di un momento di comunione in cui tutti insieme assaggiamo lo stesso gusto. È una forma di catarsi che, purtroppo, è sempre meno presente in questa società che ci atomizza, ci isola.
Ieri ho fatto le lingue di gatto a mia figlia, una ricetta tanto semplice quanto buonissima: «stesso peso di farina, zucchero, albume e burro». Tutto lì. Quasi magica, si potrebbe dire. Otto-dieci minuti di cottura a 200 gradi e voilà: li fate seccare e avete biscotti che valgono dieci volte quelli del supermercato. E soprattutto un sorriso sul volto degli astanti, che non riescono a credere che un biscotto possa essere così buono. Occhio però, danno dipendenza e fanno ingrassare, quindi moderazione.
Ecco, la moderazione, questa sconosciuta! Non ci riesco. Se mi ritrovo davanti un pacchetto di biscotti, per non parlare delle mie lingue di gatto, cedo.
Come diceva Oscar Wilde nel magnifico «Ritratto di Dorian Gray», l’unico modo per resistere a una tentazione è cedervi.
Ecco, Oscar, sono bravissimo a resistere . La gola potrebbe essere il mio peccato capitale, temo. A volte mi confronto con questi sette mostri, più per tentare di comprendermi, di associarmi a uno di loro, un po’ come i segni astrologici. Sarebbe divertente se, al posto di chiederci «sei toro o ariete?», chiedessimo «sei più gola o lussuria?»
Una intima confessione illuminante e affascinante.
E voi, cosa vi sentite? Superbi, avari, lussuriosi, irascibili, golosi, invidiosi, pigri?
Anche la superbia mi calza a pennello, temo.
Goloso e superbo: che combo!
Alla prossima pagina.