Il caldo era insopportabile. L’afa estiva aveva trasformato i sampietrini in pietre arroventate, dalle quali il vapore non emergeva più, tanto secca era diventata la loro superficie. Persino le nuvole sembravano essersi dileguate, lasciando il cielo alla mercé del sole che cuoceva a fuoco lento l’antico arco di Travertino, la porta Cerere, che segnava l’ingresso nel centro storico di Anagni.
«Hai tu il foglio con le indicazioni?» chiese Jane, alzando la voce per sovrastare il canto delle cicale che dominavano intorno. Vampate di calore secche strappavano il respiro.
Non c’era anima viva. Il centro di Anagni, borgo antico situato in cima alla valle del Sacco, 424 m sopra il livello del mare, era un luogo desolato.
A Luca bastò un passo per sentirsi immerso in una rovina archeologica abbandonata dal tempo e dagli uomini. Vide un campanile solitario emergere da dietro gli edifici bassi e antichi, accatastati e compressi. Era la cattedrale.
Le serrande dei negozi erano tutte abbassate. Non c’era nemmeno l’odore di pane a suggerire l’esistenza di vita, in quella desolazione. Tutti gli anagnini erano fuggiti all’ombra fresca delle foreste o verso i venti del litorale.
Alberto estrasse dalla tasca un foglio inumidito dal sudore e dal viaggio, con sopra le indicazioni, e si incamminò per trovare la loro casa.
«E le valigie?» lo interpellò Jane.
Alberto, rifugiatosi sotto l’ombra della porta Cerere, cercava di capire la direzione da prendere: «Dopo, prima troviamo casa».
Luca alzò lo sguardo, osservando lo stemma della città: un’aquila che afferrava un leone, e delle chiavi con un manto.
Alberto lasciò quindi la macchina in mezzo alla piazza, rasserenato dal fatto che nessun vigile si sarebbe preoccupato di multarlo, e si avviò lungo la strada principale del piccolo borgo: corso Vittorio Emanuele. «Dovrebbe essere in fondo alla via», disse, orientando la mappa nella direzione giusta. E i tre procedettero verso la cattedrale a monte.
La casa ricordava quella dei nonni: una villetta situata in un cunicolo laterale che scendeva dalla strada principale verso la valle. Civico 38. Jane estrasse un mazzo di chiavi dalla sua borsa Givenchy e le passò ad Alberto, che aprì il grande portone di legno verde.
All’interno aleggiava un odore di luogo dimenticato. La freschezza che si sprigionò dall’oscurità fu un sollievo per Luca, che subito cercò un posto dove sedersi. Jane storse il naso: la polvere era così densa da essere visibile in controluce. «Devo trovare una donna delle pulizie», disse, entrando nel salone.
Luca si gettò sul divano, che rilasciò una nuvola di polvere. Quando la luce finalmente invase la stanza, un paesaggio mozzafiato si svelò davanti alla famiglia Colonna. La casa si affacciava sulla vallata ciociara, un luogo di straordinaria bellezza, un mix tra l’eleganza toscana e quel senso di natura selvaggia che ancora caratterizzava il Lazio.
Jane non poté fare a meno di sorridere di fronte ai colori della vallata. Gerani e begonie pendevano dalle finestre, avvolte dalla vigna americana che conferiva alla vista un’atmosfera romantica, persino più magica dell’entroterra della Costa Azzurra, che tanto amava.
«Ci hanno lasciato qualcosa in cucina! Spaghetti!» esclamò Alberto, che aveva già iniziato a esplorare le varie mensole di legno alla ricerca di pasta, olio, aglio e, magari, peperoncino. Trovò una grossa pentola di acciaio bianco, la riempì d’acqua e tentò di accendere i fornelli. Ma nulla, l’accendigas non si avviava.
«Eppure il gas c’è», disse, ascoltando il sibilo silenzioso provenire dai fuochi, che tuttavia rimanevano spenti.
«Hai provato a premere il pulsante dell’accendigas?» chiese Jane, posando la borsa sulla tovaglia cerata.
«Certo che ho provato, ma non funziona, guarda.»
Nel frattempo, Luca, sdraiato sul divano e infastidito dalla luce, si era im