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Calato il crepuscolo, sotto la prima stella, l’aria si fece più fresca di quanto Jane si aspettasse. «Avrei dovuto portare un maglioncino», disse al figlio, uscendo dal portone annerito dall’ombra del tramonto, ma Luca rimaneva sempre troppo silenzioso per lei.

Il ragazzo teneva gli occhi a terra, voleva evitare di affezionarsi a quel luogo, consapevole che sarebbero di nuovo partiti, prima o poi, come sempre. Non gli importava nulla di quel borgo; Anagni era solo un’altra tappa, un’altra puntina da inchiodare al mappamondo. Non voleva affezionarsi nemmeno ai sampietrini, non desiderava ammirare le stradine medievali né sentirne l’odore. L’aria della sera aveva portato con sé un profumo di soffritto che fuoriusciva dalle finestre delle case, ora illuminate. Ma lui era infastidito da tutto, persino dai colori tenui che sfumavano con il tramonto.

Povero Luca. Non era nemmeno colpa dei genitori. Come biasimarli? Jane e Alberto avevano sempre seguito la loro felicità. Loro erano per Luca l’esempio della fiaccola dell’entusiasmo, del desiderio di ricerca, di divertimento. Erano viaggiatori nell’anima e, nel loro incedere, lo avevano trascinato ovunque.
Da Westminster a Madrid, da Nizza a Parigi, Luca era stato costretto a scoprire scuole e paesi diversi: Africa, Asia, Giordania, dove aveva visto Petra, la città di roccia. Insomma, Jane e Alberto erano così: genitori amorevoli, figli del tempo che corre.

Nel ’65, Jane era scappata di casa, appena maggiorenne. Gli anni di collegio e un padre severo l’avevano portata tra le braccia di Alberto, che invece era cresciuto come un uomo libero. Lui, amante delle donne e viaggiatore in fuga dalle sue origini modeste, si era innamorato delle minigonne francesi e si era trasferito a Parigi. A ventun anni era entrato all’Ecole Normale Supérieure per cominciare gli studi di Fisica, che lo avrebbero portato poi ad emergere come uno dei massimi esperti di fisica teorica della sua generazione.

«Dai, Pulce, vieni. Andiamo a cercare un ristorante», disse Alberto al figlio, rituffatosi tra i pixel che diventavano sempre meno visibili nella notte crescente. L’affetto che lo stringeva a Luca era un legame indistruttibile. Solo una cosa poteva far soffrire Alberto: vedere Luca isolato dietro quella corazza che aveva innalzato tra di loro.

«Dai, andiamo», ripeté.

«Sì, papà.»

«Ecco, vedi...» borbottò Jane infilandosi lo scialle, «quando tuo padre ti chiede qualcosa, ubbidisci subito. Ma quando invece te lo chiedo io, no. Mi piacerebbe capire perché.»

Luca alzò gli occhi dallo schermo, stupefatto dalle parole della madre: «Che ho detto?».

«Prima ti ho chiesto di venire e tu non mi hai nemmeno risposto.»

«Non avevo sentito.»

Jane lo guardò, una lieve fitta di dolore materno accarezzò il suo cuore.

***

Le voci animavano il borgo assopito dalla lunga giornata. Dopo aver cercato invano un ristorante per quasi venti minuti, la famiglia stava per rinunciare alla ricerca quando Alberto notò due anziani seduti su sedie di legno attorno a un tavolo rotondo, immersi in una partita di briscola. Accanto a loro, sulla tovaglia cerata, un bicchiere di rosso allungato con l’acqua.

«Scusate...» disse Alberto con cortesia.

I due anziani, concentrati nel loro gioco, non lo degnarono nemmeno di uno sguardo.

«Sapete indicarmi un ristorante?»

Uno degli anziani si piegò leggermente verso Alberto, senza mai staccare gli occhi dal tavolo, e con una sigaretta stropicciata all’angolo della bocca disse: «Accanto al municipio ci sta un’osteria. Non prendete l’abbacchio, che Marco non è capace».

«Ma che stai a dire», rispose piccato l’anziano di fronte. «Mio figlio è il miglior cuoco di Anagni.» Poi, rivolgendosi ad Alberto: «Non lo state ad ascoltare. Andate più avanti e pigliate ’a salita, in piazza ci sta un ristorante. Proprio davanti alla Santa Mar