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Luca, come un nobile parigino in rotta verso la ghigliottina, avanzava lentamente verso il fondo della piazza. Il gruppo di coetanei aveva preso possesso dei gradini sotto al monumento ai caduti. Il giovane sapeva a cosa andava incontro: ogni volta era la stessa storia. I genitori lo forzavano a incontrare gli altri e ogni volta finiva per essere rifiutato.

Avvicinandosi, solo uno di loro lo fece sentire accolto, esistente: Geppo, sedici anni, un ragazzo dai capelli crespi e naso importante, con la postura di un nuotatore professionista. Dal suo sorriso forte e sano, da quell’espressione bonaria, Luca intuì che Geppo era diverso, che ci teneva agli altri.
Appena Geppo si alzò per andare incontro a Luca, Ronnie lo fermò con un gesto. Poi, ergendosi con un sorriso tagliente tra le labbra, chiese a tutti: «A chi va di giocare a Torello?». Era una domanda retorica; nessuno poteva dire di no a Ronnie.

I ragazzi si disposero in cerchio al centro della piazza vuota. Ronnie, rivolgendosi a Luca, che era rimasto in disparte, disse: «Francesino, vuoi giocare?».
Luca si avvicinò timidamente, ancora incapace di capire di cosa parlasse quel ragazzo. Cos’era il Torello? Cosa avrebbe dovuto fare? si chiese camminando verso il cerchio di ragazzi.
Geppo intuì la difficoltà di Luca quando, giunto al centro, osservò tutti con uno sguardo smarrito e inconsapevole, tipico di chi non sa come agire. «Quelli in cerchio si passano la palla. Tu la devi intercettare, ma solo coi piedi. Se ci riesci, prendi il posto di quello che l’ha calciata per ultimo», spiegò Geppo.

Luca annuì in segno di ringraziamento. Fu sufficiente quel fugace scambio di sguardi per far comprendere a entrambi che erano destinati all’amicizia.

Il gioco prese il via. Geppo calciò la palla verso Ronnie; Luca, goffo ma dalle gambe lunghe, riuscì a sfiorarla, quasi prendendola con la punta dei piedi. Il suo cappuccio scivolò dal capo, la sua corsa si fece più concitata e il sudore lo trascinò in una trance che si potrebbe definire agonistica. Luca si muoveva inaspettatamente come un gatto cacciatore, eccitato dalla competizione. Acceso da un’energia nuova, comprese presto come anticipare il pallone.

Ronnie, nel tentativo di beffarlo, diede un calcio a pallonetto, il “cucchiaio”, come lo chiamava. Ma Luca, con un balzo atletico, fermò la palla con il petto e la posò sotto il suo piede, assumendo una posa trionfale.

Ronnie aveva perso davanti a tutti, e ora era il suo turno di andare al centro. Il bullo che covava in lui non perse tempo a segnare il territorio. Con due falcate si piazzò davanti a Luca e lo spinse a terra con violenza, in un gesto di pura frustrazione. Geppo intervenne immediatamente per fermare Ronnie, i cui pugni fremevano di rabbia per lo smacco subito.

Luca, decisamente più intelligente del suo avversario, si alzò, spolverando i jeans e mantenendo lo sguardo basso per evitare ulteriori tensioni. Si ritrasse di un passo, notando che il suo Game Boy era caduto sui sampietrini, proprio vicino ai piedi di Ronnie. Capovolto, lo schermo non era visibile. Un brivido di paura lo attraversò all’idea di aver perso il suo unico compagno di giochi.

Geppo, prontamente, raccolse il Game Boy per lui.

«Ma che stai a fare?» lo interrogò Ronnie.

«Ma si può sapere che cazzo t’ha fatto? Stava solo giocando», rispose Geppo, visibilmente irritato.
Ronnie, lanciando uno sguardo circospetto ai suoi compagni e notando la vergogna nei loro occhi, capì di aver esagerato. Con un gesto magnanimo ma finto disse: «Fate un po’ come cazzo vi pare...» e si ritirò sugli scalini a bere una birra, da solo.

Geppo allungò il Game Boy a Luca. «Io sono Andrea, ma qui mi chiamano tutti Geppo. Tu?»
Luca prese il suo videogioco, notando lo schermo scheggiato. «Luca...» rispose, serrando le labbra.

«Mi dispiace, Luca.»

«Non importa», rispose lui, riaccendendo la console. Lo scher