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Imparare a perdere. Quanto è difficile. Accettare di non essere i migliori. Eppure, a pensarci bene, è forse la condizione sine qua non per arrivare al successo.

Pensateci. Qual è la caratteristica che unisce coloro che nella vita «ce l’hanno fatta»?
La fortuna, mi direte. Sì, probabile, ma quella non dipende da noi, quindi escludiamola dalla nostra equazione (anche se Seneca aveva dei dubbi, definendola come «il talento che incontra l’opportunità»).

Cosa rimane? Il talento, lo sforzo e il coraggio. Figli della volontà, del desiderio, dello studio, del miglioramento.

Ed ecco che emerge un tratto che potrebbe impedire a queste forze di esprimersi in piena potenza: l’arroganza.

L’arroganza, l’incapacità di perdere, di ammettere di aver sbagliato ci segna. Ci impedisce di guardarci allo specchio, di comprenderci a fondo e, soprattutto, di migliorare.
Colui che pensa di sapere già tutto, di aver fatto tutto il possibile, di essere «il massimo», si trova di fronte a un problema colossale: non può migliorare. Non può, perché il primo a credere di non doverlo fare è proprio lui.

La volontà è un motore che si nutre di desiderio, di visione. Ma se il nostro desiderio è ottenere il successo perché «è giusto» invece che «comprendere come fare per riuscire», ecco che ci troviamo in un’impasse dalla quale usciremo per forza con le ossa rotte e con la clessidra del tempo ormai rotta.

Non sprecate il vostro tempo a pensare di meritare ciò che desiderate. Piuttosto, adoperatevi a comprendere come hanno fatto gli altri a ottenerlo, studiate, informatevi, saltate di palo in frasca.
Perché il vero sintomo dell’intelligenza non è la capacità di prevedere il futuro, né la capacità di memorizzare concetti: l’intelligenza è l’abilità di unire i puntini delle infinite dimensioni che si avvolgono.

Disegnare la propria creazione all’interno della tela del reale, scoprire la propria strada mentre la si percorre.

Alcuni giorni fa ho avuto un dibattito con una persona che parlava del futuro dell’arte. Diceva che l’intelligenza artificiale sarà «la sua fine», perché ormai tutti possono produrre musica, immagini, testi con l’ausilio della macchina.

A questa persona mancava una visione fondamentale del mondo: l’arte non è un prodotto, ma un processo umano.
Ciò che ci interessa, nell’arte, è l’artista, il suo processo, la sua crescita, la testimonianza del percorso che lo porta di tappa in tappa, nei meandri del creato, alla ricerca di un senso.

Lo stesso senso che tutti cerchiamo.

Per questo sono ottimista sul futuro, perché so che questo diario, voi, i miei libri, i film, fanno tutti parte di un unico grande «calderone» che manifesta l’unicità dell’artista. Una polaroid multidimensionale, un caleidoscopio dell’anima.

E ognuno di noi è questo: un labirinto di emozioni, di scoperte ancora sconosciute, di segreti da svelare e da custodire.

Il mistero siamo noi, ed è solo tenendoci per mano che potremo andare incontro a esso con la consapevolezza di non essere soli, ma tutt’uno.

Ho letto una formula che mi ha fatto sorridere:

Successo = Talento * Sforzo²

Questo significa che conta di più lo sforzo del talento. In effetti, un detto ci ricorda che la costanza dello sforzo batte sempre il talento sporadico (la favola di Esopo della lepre e della tartaruga ne è l’esempio).
Lo sforzo è al quadrato, esponenziale, potente. Ma il talento è il suo primo moltiplicatore. L’assenza di talento porta a uno sforzo immane per un risultato troppo basso. Ergo, dobbiamo sviluppare entrambi gli aspetti del creare: il talento, attraverso la lettura, il pensiero, il coltivare l’anima, la sensibilità, la nostra umanità; e lo sforzo, attraverso la tecnica, la volontà, la disciplina.

Solo con due ali si riesce a volare.

Alla prossima pagina.