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Ai tempi di Omero, non esisteva la parola “blu”.

Quella che può sembrare un aneddoto privo di reale interesse, invece, mi ha aperto una porta creativa.

Immaginate di dover raccontare la storia di un uomo. L’uomo più intelligente di tutti, colui che non usa la forza degli eroi, colui che non è figlio di un dio. Un uomo che, con le sue sole forze limitate e il suo ingegno, è capace di superare ciclopi, maghi e animali mitologici.

Ulisse ha viaggiato per il Mediterraneo per anni, affrontando mille peripezie. E mai una volta, nell’Odissea, viene menzionato il colore “blu”.

Provate a immaginare di raccontare una storia che si svolge in mare e non menzionare mai il suo colore. L’Odissea è questo. E lo trovo un esempio formidabile di come i limiti alla nostra creatività siano imposti da noi stessi.

Se Omero è stato capace di raccontare una storia evitando il suo colore dominante, e non una storia qualsiasi, ma la storia che dà inizio all’umanità che vede se stessa come centrale nel mondo, allora ogni limite, paura o dubbio che possiamo avere sulla nostra creazione è artificiale. Ma superabile.

Può capitare di rimanere bloccati dentro un meccanismo, vuoi per volontà — cioè non siamo disposti a mollare un’idea e forziamo la realtà per farla funzionare — vuoi per richieste esterne. Per esempio, la volte mi pongo domande sull'opera che esulano dall’estetica o dalla tecnica, ma si focalizzano sull’aspetto del mercato o della fattibilità.

Tutti abbiamo paletti e limiti, voluti o imposti.

Il fatto che siamo consapevoli di questi limiti influenza la nostra capacità di superarli. Omero non aveva la parola “blu” e questo non gli ha impedito di scrivere la storia di mare più bella di tutte.

Questo significa che qualsiasi limite vi siate imposti, qualsiasi ostacolo creativo vi troviate ad affrontare, può essere superato semplicemente dimenticandone l’esistenza.

C’è un momento in “The Matrix” in cui un ragazzino piega un cucchiaio con il pensiero. Come fa? Dimentica che è un cucchiaio.

Il primo ostacolo da superare siamo noi.

Certo... esistono ostacoli tangibili, troppo reali per essere ignorati, e questo ci richiede di continuare il nostro percorso di crescita per poterci voltare verso questi ostacoli come il gigante verso la formica.

Ricordo che da bambino certe cose mi sembravano insormontabili, ora non le prendo nemmeno in considerazione.

Ma altre lo sono ancora: il timore di parlare a qualcuno, di chiedere quello che mi spetta, di farmi valere.

Faccio fatica a farmi valere.

Spesso lascio a Eleonora l’onere di andare a “rompere” — che poi è solo chiedere ciò che spetta. Sono fatto così, mi vergogno. Ho il difetto di farmi andare bene le cose, anche quando non dovrebbero essere così.

Forse è una forma di pigrizia: mi faccio andare bene le cose per non dover affrontare quel momento in cui rischio di sembrare antipatico.

Ma non c’è antipatia nel chiedere ciò che è dovuto, no?

Faccio ancora fatica, a 45 anni, ad accettarlo.

Come posso associare il “non blu” della Grecia antica a questo pensiero?

Forse quel desiderio di essere simpatico a tutti i costi è un limite che mi sono imposto. Per superarlo, dovrei trovare il piacere di farmi valere.

Un po’ negli anni sono migliorato, ma ho tanta strada da fare e poco tempo.

Sto concludendo la prima stesura del terzo volume de Il Labirinto della Speranza, ma sono indeciso sulle copertine, sull’approccio… più concettuale o più pittorico? Ancora non lo so. Oscillo tra caldo e freddo, tra forma e sostanza.

Nel chiudere il terzo, immagino già il quarto (era già stata stesa una prima stesura, ma è stata completamente trasformata dall'evoluzione dei personaggi). Più mi avvicino alla fine, più si fa chiaro il cuore della verità, il grande segreto che ho trovato sepolto al centro del labirinto.

Dopo di esso, i miei personaggi non saranno mai più gli stessi, e questo preparerà il terreno per l’ultimo volume: l’ineluttabile scontro finale.