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IL PROBLEMA: I NUMERI DELL’ESCLUSIONE IN ITALIA



I dati parlano chiaro: secondo l’Istat – nota Poletti – in Italia solo il 52% delle donne lavora (contro il 67% della media UE), appena il 28,7% occupa posizioni manageriali rispetto al 34% in Europa. Le donne occupate sono 9,5 milioni, laddove gli uomini occupati sono 13 milioni. Quante più aziende inizieranno a camminare per colmare questo gap, tanto più aumenterà la competitività del nostro Paese. Pensiamo anche al tema delle diverse abilità: in Italia ci sono oltre 3 milioni di persone con disabilità in età lavorativa, ma solo il 32% di queste è occupato: l’“abilismo”, inteso come tendenza a considerare la disabilità come un deficit da correggere o da compatire, è purtroppo ancora presente nei contesti professionali. Oppure, ancora, guardiamo ai dati della recidiva di reato, che crolla fino al 2% se la persona esce dal carcere con strumenti nuovi e un lavoro avviato. Per non dire, poi, dell’allungamento delle aspettative di vita e della revisione dell’età di pensionamento che stanno determinando un protrarsi del periodo trascorso al lavoro: il rischio è che Boomers, Gen X, Millennials, Gen Z e in futuro Gen Alpha entrino in un cortocircuito comunicativo, non comprendendosi reciprocamente e alimentando la distanza e il conflitto. Per questo occorre moltiplicare le occasioni di “commistione generativa”, valorizzando in chiave di business e di miglioramento organizzativo le competenze e le attitudini di ciascun gruppo generazionale con, ad esempio, il mentoring e il reverse mentoring».