"Mi trattengo a stento dal cercare Nazar nella tasca.
Per un po’ il caro vice non dice nulla, scribacchia cose sconosciute tra le pagine di una vecchia agenda di pelle marrone emersa non so da dove che sembra possa esplodere a minuti, dalla quale sbucano foglietti colorati e scartoffie varie. Sembra un Hamburger a strati.
Io osservo attonita il suo sguardo fermo e iracondo. L’espressione preoccupata è sparita. Forse me la sono immaginata.
Davanti al mio mutismo, lui sospira. “Ora dovresti rispondermi, sarebbe un primo passo.”
“Sì” scatto io “sì, ci proverò.”
Il vice mi squadra, poco convinto. “Me lo auguro di tutto cuore.” Si alza e aggira la mia sedia per raccogliere i post-it che giacciono indisturbati ai miei piedi. “L’interesse alla fin fine dovrebbe essere il tuo, Anvil.” Mi dice in tono più calmo nel rialzarsi, guardandomi negli occhi.
Poi si alza nuovamente dalla poltrona girevole in pelle, si conduce alla porta e me la apre. “Puoi andare.”
Schizzo via dalla mia postazione ed esco dalla stanza senza dire una parola.
Sento il suo sguardo pesarmi sulla nuca, perché so che mi sta osservando.
Non ho sentito la porta richiudersi.
Tiro dritto fino a quando non devo girare l’angolo conducente al corridoio principale, e sento Calista chiudere la porta.
Poi, silenziosamente, scoppio in lacrime.
Presa alla sprovvista dalla mia stessa reazione, scappo in bagno, ricacciando in gola il dolore in fretta e furia.
Non dobbiamo piangere, vecchia mia. Ne abbiamo già parlato.
E che ti prende? Che hai da piangere?
Mi chiudo in bagno per un po’, inspirando profondamente, la testa appoggiata al muro che vortica all’impazzata.
Come faccio sempre quando mi sento in gabbia, mi arrampico sulla bocca umida del cesso e perdo lo sguardo fuori dalla finestra. L’aria mi pizzica le guance anche sta volta, mentre contemplo i pini nascosti al di là della recinzione, il piccolo tetto rosso della palestra, il cortile sul retro ingrigito dai graffiti, inspirando l’aria pulita. Non siamo chissà quanto in alto, eppure osservare la scuola e l’esterno da qui mi fanno come ridimensionare la porzione dei miei guai. Da quassù questo istituto non sembra poi tanto grande.
Resto così per un po’, appoggiata alle braccia conserte.
Questo silenzio.
Ascolto la mia testa vuota. Il ventre freddo. La pelle gelida.
Il vento soffia, e non mi porta niente.
Nascondo per un poco il viso tra le mani.
E quindi, è questo il suono di Nazar che non c’è più.
Non mi ci abituerò, mi dico.
No, non mi ci abituerò mai."