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http://nochesdealhambra-conversando.blogspot.com/2010/11/tito-amodei.html

Abbraccia giovanissimo la vocazione religiosa dopo aver seguito un corso di esercizi spirituali tenuto dai Padri Passionisti a Colli a Volturno. Tra il 1940 e il 1943, entra in seminario a Nettuno per gli studi ginnasiali e successivamente in noviziato presso il convento dei Passionisti di Monte Argentario dove assume il nome di Tito. Negli stessi anni compie privatamente, come autodidatta, anche le prime esperienze di scultura, pittura e disegno.

Pochi anni dopo si sposta a Firenze per gli studi teologici che si concluderanno a Roma nel 1953 con l'ordinazione sacerdotale, e a Fiesole, nel 1950, conosce il pittore Primo Conti con cui consolida nel tempo una duratura amicizia e che diventerà suo maestro all'Accademia di Belle Arti di Firenze tra il 1953 e il 1957. Risalgono sempre agli anni dell'accademia anche le frequentazioni, nella villa fiesolana di Conti, della scena artistica fiorentina e il progetto di una pubblicazione antologica sull'iconografia della Passione di Cristo nell'arte contemporanea che si concretizzerà nel 1962 con l'edizione di "50 artisti per la Passione".
Concluso il corso di studi, intraprende l'insegnamento umanistico nei licei della sua congregazione religiosa e parimenti l'attività espositiva che gli frutta i primi riconoscimenti (vince due edizioni del "Premio Costa d'Argento"). Fino al 1962, la sua produzione pubblica è ancora prevalentemente pittorica e confinata nell'ambito locale della provincia grossetana, ma risale all'estate del 1960 l'episodio della vita di Tito che fornisce a Giorgio Saviane lo spunto per il titolo della raccolta "La donna di legno" del 1979 e il soggetto di uno dei racconti che questa include: il minuto frate molisano rinviene sulla spiaggia di Orbetello un enorme tronco d'albero con cui realizza la sua prima scultura ("Il Grande Nudo", 1962-1964), un nudo di donna stilizzato dalla superficie nervosamente e minuziosamente scalpellata.
«Sulla spiaggia approdò un tronco di donna. Si torceva ancora non si sapeva per quali spasimi voluttuosi o di morte. Forse si poteva salvarla; le natiche poderose rivolte al cielo, le reni concave da atleta, la forza che emanava dai resti delle cosce spezzate, facevano sperare. Un fraticello spuntò dall'orizzonte che l'umidità del mattino restringeva attorno alla tragedia. Chi l'avesse uccisa era dunque un mistero, ma, certo, Tito l'aveva fatta rivivere; il tronco fermato nel suo fremito di morte, la testa più in là, sentimentalmente ricostruita, di prima della tragedia. Mi avvicinai meglio al ritratto: sotto al collo vidi improvvisamente risorgere i segni astratti di una realtà inferiore che violentava la serenità di quel volto per una più accesa dimensione. L'aveva dunque anche uccisa, Tito, piccolo ma onnipotente con il suo segno folle di ricerca e di ansia. »
Giorgio Saviane, "La donna di legno". Dal catalogo della mostra "Padre Tito - Pittura, Scultura", 1964. In Tito. Opere dal 1979 al 2005, op. cit., pp. 69-70