Gaza oggi è un frastuono di macerie. Le forze israeliane spingono dentro la città, demolendo palazzi e gallerie mentre la popolazione cerca vie di fuga che non esistono: 65 mila morti secondo il ministero della Sanità di Gaza, decine solo nelle ultime ore. Perfino gli operatori umanitari ricevono un avviso grottesco: «protetti» solo gli ospedali, tutto il resto può essere colpito. Un modo elegante per dire che la vita civile non conta più niente.
Lunedì 22 settembre tocca a noi, sulla terraferma. La chiamano «ciurma di terra» e non è retorica: è la rete di chi sciopera, presidia, impone all’agenda pubblica una verità che i governi nascondono. I sindacati di base hanno proclamato lo sciopero generale: trasporti, scuole, università a rischio. Non per “stare contro”, ma per navigare controvento finché il vento cambia.
Dall’altra parte dell’Atlantico, intanto, scricchiola la propaganda. La Casa Bianca spinge un nuovo pacchetto d’armi da 6,4 miliardi di dollari per Israele — elicotteri Apache, veicoli d’assalto, ricambi — mentre anche tra gli elettori MAGA cresce l’idea che i soldi vadano alla pace più che alle armi: il 73% chiede di investire su peacebuilding, non su nuovi ordigni. La fronda non ferma Trump, ma racconta un Paese stanco di finanziare un deserto morale.
La Flotilla continua il suo viaggio, e noi con lei. La ciurma di terra serve per quello: soffiare, ostinare, pretendere che l’Europa esca dalle sabbie mobili e che l’Italia smetta di balbettare. Lunedì non è un rito: è la rotta. Portiamo il rumore nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. Anche da terra, siamo noi il vento che sposta le fronde.
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