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La Global Sumud Flotilla è a trecento miglia dalle acque palestinesi. Dopo quattromila chilometri di navigazione, la distanza residua misura la tensione politica che accompagna la missione. In mare ci sono barche già colpite da due attacchi di droni, danneggiate ma non fermate. A terra ci sono piazze piene, sindacati, studenti e lavoratori che il 22 settembre hanno scioperato in solidarietà con Gaza e con gli equipaggi.

Il messaggio dei portuali resta scolpito: «Se toccano la GSF blocchiamo tutto». È l’eco che accompagna la rotta verso Sud e che ricorda lotte capaci di trasformare la solidarietà in forza materiale. La protezione non arriva solo dal mare: passa dalle piazze e dall’attenzione pubblica che obbliga i governi a smettere di fingere neutralità.

Domenica 28 settembre la delegazione italiana ha incontrato il ministro Crosetto. Nessun impegno ne è uscito. La portavoce Maria Elena Delia lo ha detto: l’assenza di azioni equivale a complicità con chi perpetua violazioni del diritto internazionale. Mentre l’ONU e la Corte penale parlano di genocidio, l’Italia continua a fornire armi e a mantenere accordi commerciali con Israele.

La richiesta è chiara: sanzioni, stop alle forniture militari, iniziative diplomatiche per corridoi umanitari e indagini indipendenti. Non sono parole radicali: sono misure già previste dalle convenzioni sottoscritte dall’Italia.

Il giorno 29 della Flotilla è un tempo sospeso: davanti c’è il Mediterraneo orientale, dietro un Paese che deve scegliere se essere spettatore o parte attiva nella difesa dei diritti.

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