Nella notte i bombardamenti sono tornati a colpire con forza. Le fonti sanitarie di Gaza parlano di almeno venti morti nei raid su case dove intere famiglie stavano dormendo; la dinamica coincide con quanto riportato dalle corrispondenze di Haaretz e dalle agenzie internazionali. L’IDF sostiene di aver reagito a una «violazione della tregua» attribuita a Hamas. È la stessa formula ripetuta da giorni: l’idea che la tregua sia un dispositivo da accendere e spegnere, una variabile tecnica, mentre la vita delle persone diventa il campo di prova.
Anche Reuters e Associated Press confermano che migliaia di civili sono stati costretti a spostarsi ancora una volta verso i cosiddetti corridoi umanitari, zone sempre più simili a parcheggi di disperati senza acqua né servizi. Eppure queste condizioni non rientrano mai nel conteggio ufficiale delle “violazioni”. Qui entra in gioco la nostra ossessione per il linguaggio: una parte definisce cosa rompe la tregua; tutto il resto, dalle restrizioni agli aiuti alle case rase al suolo, resta fuori dal quadro.
La Cisgiordania continua a essere il fronte che quasi nessuno nomina. Nelle ultime ventiquattr’ore si registrano un palestinese ucciso a Nablus, diversi arresti notturni e nuovi assalti dei coloni: dettagli confermati sia dalle équipe dell’ONU sia dalle cronache locali. È una guerra lenta, che non ha bisogno di dichiarazioni ufficiali per proseguire.
Nel frattempo, in Israele crescono ancora le tensioni interne: le famiglie degli ostaggi temono che ogni escalation allontani l’accordo e accusano il governo di usare la tregua come strumento politico. I giornali israeliani ne parlano apertamente, ma questo non sposta la retorica dei vertici.
La diplomazia europea continua a ripetere che la tregua è fragile, che serve pazienza. Qui, invece, la tregua appare per quello che è: un guscio vuoto che ogni notte si incrina sotto i colpi. E il linguaggio che dovrebbe proteggerla diventa l’alibi perfetto per non vedere.
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