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Sul suo sito "Giustiziari", il giornalista Massimo Cavoli racconta di G., un giovane reatino che nel 2008 si tolse la vita annodando le lenzuola alle sbarre della finestra di una cella dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dove era stato trasferito da Rieti perché la sua condizione appariva incompatibile con il regime carcerario.
La storia è tristemente simile a tante altre. G., tossicodipendente, si lasciava andare a comportamenti violenti nei periodi di astinenza, aggredendo anche alcuni familiari. Era stato arrestato per violenze ed era stato trasferito nell’ex ospedale psichiatrico in provincia di Mantova, poi chiuso dopo la creazione delle Rems.
Una perizia e i suoi comportamenti autolesionistici urlavano a tutti che l’ipotesi del suicidio fosse concreta. Nessuno però ritenne utile sorvegliare il giovane, e così si arrivò a quel lenzuolo legato intorno al collo. Alla fine, G. fu uno dei 48 suicidi registrati quell’anno.
La famiglia è convinta che morire di carcere non sia roba da Paese civile, ma per tre gradi di giudizio ha avuto torto di fronte alla giustizia italiana. Cane non mangia cane, del resto.
Ora l’inerzia e le responsabilità dello Stato italiano sono finite di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che lo scorso 20 gennaio ha confermato che il caso “sarà esaminato il prima possibile”.
Parrebbe una storia minima, di provincia, e invece è il succo della democrazia: uno Stato che giudica non può non avere cura delle persone - tutte le persone - che rappresenta.

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