I dati relativi alle città europee nel confront tra il 2001 ed il 2021 mettono in evidenza un arretramento importante delle aree metropolitane e delle aree rurali. Resistono esclusivamente le aree urbane delle città capitali di stato. Una delle motivazioni che potrebbero spiegare questo arretramento delle città europee potrebbe essere connesso alle tante crisi che la globalizzazione ha vissuto dal 2000 in poi. Possiamo individuare varie crisi della globalizzazione. Innanzitutto c’è stata una crisi politica negli anni 2000 quando la sinistra attaccava la globalizzazione intesa come uno strumento di egemonia americana sui paesi in via di sviluppo e di nuova industrializzazione attraverso l’applicazione del cosiddetto Washington Consensus ovvero della convergenza di Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale sulle politiche economiche e gli interessi della White House. Poi c’è stata la crisi economica e finanziaria del 2007-2008, ovvero la Great Financial Crisis. In quel periodo immediatamente si iniziò a parlare di de-globalization ovvero di fenomeni di riduzione della globalizzazione anche per difendersi dall’importazione di crisi finanziarie e di instabilità generate nei mercati finanziari. Poi c’è stato il Covid che ha messo per la prima volta in crisi le catene del valore a livello internazionale. Per la prima volta il reperimento di prodotti e servizi che sembravano di disponibilità immediata è stato sottoposto a limitazioni di scarsità. Mascherine e respiratori polmonari sembravano beni impossibili da costruire, trasportare e commercializzare. In seguito poi la guerra russo-ucraina, le guerre di Israele nel Medio-oriente, l’attacco degli USA all’Iran, e le tensioni nel pacifico tra USA e Cina hanno messo la parole fine alla globalizzazione. Una fine che poi è stata certificata dall’amministrazione Trump attraverso le politiche dei dazi che sono stati imposti a tutti paesi sia alleati, che non allineati, che competitors. Oggi parlare di globalizzazione appare una utopia. Sono lontanissimi i giorni nei quali si poteva scegliere di lavorare, vivere e studiare alternativamente a Londra, Hong Kong o Singapore, passando per partner russi o facendo un viaggio di lavoro nel medioriente senza timore di finire bloccati in una guerra o nella sospensione dei diritti umani e delle libertà economiche e civili. E a pagare il prezzo di questo sono state soprattutto le città europee. Prima erano parte di una rete internazionale. Ora non lo sono più. Le città sono state costruite come luoghi aperti all’internazionalizzazione. Ogni arretramento sulla linea della globalizzazione colpisce inevitabilmente anche le città. Con le loro imprese, università, e con il loro sistema turistico e dei trasporti. L’unica via per il rilancio delle città occidentali è riprendere la globalizzazione, progettando un mondo nel quale il commercio internazionale sia ancora libero ed aperto a tutti. Ben sapendo che il commercio internazionale non è un gioco win-win. Che ci sono vincitori e sconfitti. E che nonostante questo è sempre preferibile alla guerra e alla sua macabra ombra di morte e distruzione.
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