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Questa è una delle tante, tantissime parti di una storia.
Una storia alimentata da soldi, poteri forti e irresponsabilità.
Sarebbe semplice etichettare questi fatti come una classica “storia italiana”, ma non è il caso di farlo.
Perché classificare un popolo intero per le scelte di pochi è indegno nei confronti di chi, quelle scelte, le ha subite.

Morirono in migliaia, interi paesi vennero spazzati via, culture e tradizioni vennero sepolte da milioni di metri cubi di acqua, terra, rocce e fango.
Annientati dall’ingordigia e dalla superbia che, in una notte di ottobre di 60 anni fa, si manifestarono sotto forma di una gigantesca ondata che sconvolse non solo l’Italia, ma il mondo intero.

Non un disastro, non una catastrofe naturale, no. Niente di tutto questo.
Tina Merlin - giornalista dell’epoca - parla di olocausto, il termine corretto per degli eventi che gridano allo scandalo e trasudano la più lurida delle vergogne.
Oggi quelle ferite sono cicatrici indelebili, ancora aperte e che mai potranno essere taciute.Il silenzio assordante del disastro del Vajont rappresenta l’epicentro di brogli, omertà e disinteresse che fecero collassare una gigantesca frana nell’omonimo bacino idroelettrico.

Ma questa non è la storia di quella sera.
È la storia di un’altra frana e di un’altra diga.
A collegarla con quella del monte Toc e alla diga del Vajont, ci sono circa 20 chilometri di distanza, la stessa società - la SADE (società adriatica di elettricità) - proprietaria di ambedue gli impianti e un sinistro presagio verificatosi il 22 marzo 1959.

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