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Ci sono al mondo delle cose che appaiono meravigliose, tanto più quanto lontane dalla nostra abituale esperienza; e che, per via delle coincidenze, o permanenze, e accostamenti tanto evidenti quanto imprevedibili, fanno chiara la verità. 
Venerdì scorso avevo passato gran parte del pomeriggio immerso nei libri di Stendhal, occupato come ero a finire urgentemente un saggio-prefazione per la traduzione di “Roma, Napoli e Firenze”: uscito poi di casa, tutto pieno l'animo e la mente di quelle sue folgoranti considerazioni italiane, delle sue immagini di questa terra così amata, fatta di passione di energia sublime e di naturalezza sotto l’estranea crosta del passato, di questa patria sua e nostra di uomini veri e vivi e di governi anacronistici, mi avvenne di trovarmi in Piazza del Popolo (in questa piazza che a Stendhal non piaceva) mentre vi si svolgeva l'ultimo comizio: e mi trovai, come per un miracolo, fisicamente avvolto in questo mondo di centocinquanta anni fa.

Luoghi narranti narrati o citati: Piazza del Popolo

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È una città eterna e «fuggitiva», nobilissima e plebea, sempre in bilico tra il cammeo e la patacca, quella raccontata da Carlo Levi in questi scritti, che «sembrano inseguire Roma, nel suo splendore fuggitivo, nelle mosse in cui la sua bellezza pare espandersi, aprirsi a un nuovo sviluppo civile». Sfila in queste pagine intense, scritte tra il 1951 e il 1963, una moltitudine di tipi e personaggi, veri ritratti parlanti e gesticolanti di un mondo popolare, di antichissima civiltà, governato dalla più flemmatica e scettica filosofia di vita e insieme dotato di sorprendente vitalità.

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