I testi di oggi ci invitano a riflettere sul nostro essere servitori, su chi serviamo davvero. L’immagine evangelica dei servi fedeli che danno il cibo a tempo opportuno è bellissima: persone semplici, umili, puntuali, che si prendono cura di ciò che il Signore ha loro affidato. Questa fedeltà quotidiana è ciò che dà senso al nostro essere discepoli. Anche la lettera ai Romani usa un linguaggio simile, parlando di “essere schiavi del peccato”. È un’espressione forte, ma vera: il peccato ci rende schiavi, ci imprigiona, ci condiziona, e spesso nemmeno ce ne accorgiamo.
La schiavitù del peccato
Il peccato può assumere tante forme: un atteggiamento che si ripete nel tempo, una relazione che diventa tossica, un modo sbagliato di rapportarci a chi ci vive accanto — il marito, la moglie, i familiari. Può essere un vizio, una dipendenza, qualcosa che ci lega interiormente e da cui facciamo fatica a staccarci. È una schiavitù cattiva, perché ci toglie libertà. Eppure Paolo ci mostra una via diversa, con un’espressione meravigliosa: “Non offrite al peccato le vostre membra”.
L’offerta a Dio
Questa parola “offrire” — in greco “presentare” — è centrale. Paolo ci invita a non presentarci al peccato, ma a offrire noi stessi a Dio. Che cosa offriamo? Tutto noi stessi: il nostro corpo, la nostra storia, le nostre ferite, la nostra vita salvata. Dice Paolo: “Come viventi, ritornati dai morti”. È la vita stessa che diventa un dono, un’offerta di riconoscenza.
Siamo chiamati a offrirci a Dio “come strumenti di giustizia”, mettendo davanti a Lui ciò che siamo con umiltà. Anche chi è anziano o immobilizzato nel letto può farlo: non è questione di fare, ma di essere. Offrire tutto sé stessi a Dio è già un atto d’amore profondo, perché Lui ci ama, ci desidera, ci salva.
Tempio dello Spirito e schiavitù buona
Se siamo tempio dello Spirito Santo, allora dentro di noi c’è già la presenza viva di Dio. Offrendo noi stessi a Lui, accogliamo la grazia che ci trasforma. Non si tratta tanto di combattere il peccato con le nostre forze, ma di spostarci di fronte: invece di presentarci al peccato, ci presentiamo a Dio.
È un altro tipo di schiavitù, ma una schiavitù buona. Quando offriamo a Dio le nostre mani, le nostre labbra, i nostri occhi, essi diventano strumenti suoi, non più nostri. È così che diventiamo “schiavi della giustizia”: servi liberi, mossi dallo Spirito, restituiti a relazioni nuove, purificate, rinate.
L’offerta che Dio gradisce
Questa obbedienza umile è la risposta di un figlio amato che restituisce ciò che ha ricevuto. E Dio accetta sempre la nostra offerta, anche se è piccola, povera, fragile. A Lui possiamo dire: “Ti offro tutto ciò che ho: me stesso”.
Nell’Eucaristia questo gesto trova la sua pienezza: offriamo noi stessi insieme al sacrificio d’amore di Gesù. È questa l’offerta che Dio più gradisce — il suo Figlio morto e risorto per noi — e unendoci a Lui, la nostra vita diventa parte di quell’unica offerta d’amore che salva il mondo.