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Quando ascolto la confessione di Esdra – «Mio Dio, ho vergogna di alzare la faccia verso di te» – mi colpisce la profondità e la sincerità di queste parole. In questi giorni stiamo leggendo il suo libro, che racconta del ritorno del popolo dall’esilio. Esdra è una guida, ma al suo rientro si accorge che il popolo non è capace di rimanere fedele all’alleanza.

Hanno vissuto l’esilio proprio a causa del peccato, hanno sofferto lontani dalla loro terra, eppure, anche tornati, restano oppressi da quella stessa colpa. Non riescono a vivere i comandamenti, nonostante l’esperienza dolorosa che hanno attraversato. Trovo bellissima questa vergogna di Esdra, questa confusione davanti a Dio. Non ha il coraggio di alzare lo sguardo, perché la colpa è troppo grande, radicata fin dai tempi dei padri. Non sono parole di circostanza: lui sente questo peso sulla sua pelle, nella sua storia e in quella del suo popolo.

La grazia che apre alla consapevolezza

Mi interrogo: da dove viene allora quella luce che permette a Esdra di pronunciare una simile preghiera? Anche noi tante volte facciamo fatica a renderci conto dei nostri peccati. Perfino in confessione capita di pensare: «Ma che cosa ho fatto di male?». Invece Esdra ha una lucidità straordinaria, e mi accorgo che questa nasce dalla grazia di Dio.

Lo dice chiaramente: «Per un po’ di tempo il Signore nostro Dio ci ha fatto una grazia». È questo dono a muovere il cuore di Esdra al pentimento. Dio gli ha lasciato un resto, gli ha dato un asilo nel suo luogo santo. Ha fatto brillare i loro occhi e dato sollievo nella schiavitù. È proprio nel mezzo della difficoltà che Esdra riconosce il dono di Dio: il Signore non li ha abbandonati, ma ha permesso loro di tornare e di abitare nuovamente nella sua casa.

Questa esperienza lo porta a domandarsi: «Perché, Signore, ci ami così? Non lo meritiamo, eppure tu continui ad amarci».

La vergogna illuminata dall’amore di Dio

Capisco allora che la vergogna di Esdra nasce proprio dall’incontro con l’amore di Dio. È questa storia d’amore che muove al pianto e alla contrizione. Noi ci rendiamo davvero conto del nostro peccato solo quando prima gustiamo la dolcezza del bene che Dio ci dona. È come chiedersi: «Perché, Signore, mi vuoi bene?».

Mi viene in mente l’innominato, che nella sua notte di tormento percepisce una luce, un desiderio di bene che lo spinge a incontrare il cardinale. Senza questa luce resteremmo nella disperazione, nella vergogna sterile. Ma quando Dio si fa vicino, allora nasce la possibilità della conversione.

Anche Adamo ed Eva si rendono conto del loro peccato solo quando Dio li cerca. Non è la loro nudità a farli riflettere, ma il sentirsi interpellati: «Adamo, dove sei?». È lì che emerge la consapevolezza del male. È la vicinanza di Dio che smuove il cuore.

La grazia che ci precede e ci sostiene

Riconosco che il sollievo che Dio ci dona in anticipo è proprio la sua grazia, e la grazia più grande è il dono del Figlio sulla croce. Non è un piccolo gesto superficiale: è un dono immenso. Ogni Eucaristia è il segno vivo di questa grazia che non ci viene mai a mancare.

Il cammino della conversione consiste nel dire il nostro sì a questo dono, nell’ascoltare la Parola che ci apre gli occhi e ci fa desiderare di ricevere, senza merito, il corpo e il sangue del Signore. Ma devo ricordarlo: non siamo degni. Anzi, se qualcuno pensasse di essere degno della comunione, non dovrebbe farla. L’unica condizione è sentirci come Esdra: indegni, eppure accolti.

Per questo ringrazio il Signore per la sua grazia. Solo se viviamo con questa povertà, lasciando trasparire in noi non i nostri meriti ma il dono di Dio, possiamo diventare davvero testimoni. Allora, come i discepoli, saremo annunciatori del Vangelo: non per le nostre capacità, ma perché la grazia brilla nella nostra vita.