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Il dibattito contemporaneo sul conflitto israelo-palestinese è sempre più spesso caratterizzato da narrazioni che riducono una realtà complessa a schemi interpretativi semplificatori. Da un lato, la tendenza a distorcere completamente il senso originario del progetto sionista equiparandolo a una pura e semplice forma di colonialismo; dall’altro, la negazione delle responsabilità storiche e delle dinamiche di oppressione che hanno caratterizzato la storia recente della regione. Quella che vorrei proporre in queste brevi note è un’analisi critica che, attraverso un approccio storico meno superficiale di quel che leggiamo sui giornali, cerca di superare le semplificazioni per offrire una comprensione più articolata non solo delle origini e della natura del conflitto, ma anche di quella che appare tuttora come l’unica soluzione possibile.

Per comprendere la complessità del conflitto attuale, è essenziale partire da una considerazione passata diffusamente sotto silenzio dalla propaganda antisionista contemporanea: la presenza ebraica nel Medio Oriente non inizia affatto con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, ma affonda le sue radici in millenni di storia. La diaspora ebraica, iniziata con le deportazioni assiro-babilonesi del VI secolo a.C. e intensificatasi dopo la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C., portò alla formazione di comunità ebraiche stabili in tutto il bacino del Mediterraneo e nel mondo arabo. Dalla Spagna musulmana all’Iraq, dal Marocco allo Yemen, circa un milione di ebrei di lingua e cultura araba ha vissuto per secoli stabilmente nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa fino alla metà del XX secolo.

Queste comunità, integrate nelle società locali, contribuirono attivamente alla vita culturale, economica e intellettuale delle città in cui risiedevano. Baghdad, Damasco, Il Cairo, Tunisi e Fez ospitavano comunità ebraiche fiorenti che mantenevano rapporti pacifici con le maggioranze musulmane. La convivenza non fu sempre idilliaca – periodi di tensione e persecuzione si alternarono a fasi di relativa serenità – ma l’esistenza di questa realtà plurisecolare dimostra che la presenza ebraica nel Medio Oriente non può essere ridotta al solo fenomeno migratorio moderno legato al sionismo. Questa premessa storica è fondamentale per decostruire narrazioni che presentano gli ebrei come esclusivamente ‘europei’ o ‘coloniali’ nella regione. La fondazione dello Stato di Israele nel 1948 rappresenta una cesura drammatica nella storia delle comunità ebraiche del mondo arabo.

Nel giro di pochi anni, tra il 1948 e il 1960, circa 856.000 ebrei furono costretti ad abbandonare tutti i paesi arabi, la stragrande maggioranza trovò rifugio nel neonato Stato israeliano. Questo esodo, spesso definito come una Nakba ebraica in parallelo alla Nakba palestinese, trasformò in modo radicale la demografia del Medio Oriente. Le cause di questa migrazione di massa furono molteplici e variegate a seconda dei contesti nazionali. In alcuni casi, come in Iraq e nello Yemen, si trattò di espulsioni forzate accompagnate dalla confisca di beni e proprietà. In altri, come in Marocco e Tunisia, la pressione fu più sottile ma non meno efficace, caratterizzata da discriminazioni legali, boicottaggi economici e un clima di crescente ostilità. La guerra arabo-israeliana del 1948-49 e i successivi conflitti crearono un’atmosfera di sospetto verso le comunità ebraiche locali, spesso accusate di essere una “quinta colonna” sionista.

Naturalmente sarebbe semplicistico attribuire questo esodo esclusivamente alle persecuzioni: il movimento sionista aveva già da decenni iniziato un’opera di sensibilizzazione e mobilitazione nelle comunità ebraiche del mondo arabo, presentando l’emigrazione in Palestina come una forma di ‘ritorno’ e di rinascita nazionale. L’attrazione esercitata dal progetto sionista, specialmente nella sua variante socialista e pioneristico-agricola, giocò un ruolo significativo nel convincere molti ebrei arabi a emigrare volontariamente. È quindi più accurato parlare di un fenomeno complesso in cui fattori di pressione (persecuzioni, discriminazioni) e fattori di attrazione (ideologia sionista, opportunità economiche) si combinarono in modi diversi a seconda dei contesti locali e individuali. La maggior parte di questi migranti non può essere definita semplicemente come coloni in cerca di fortuna, ma piuttosto come rifugiati che cercavano sicurezza e nuove opportunità di vita.

Una delle principali distorsioni nel dibattito contemporaneo riguarda la rappresentazione del sionismo come movimento monolitico e intrinsecamente coloniale. La realtà storica presenta invece un quadro molto più articolato e contraddittorio: il sionismo, nato nella seconda metà dell’Ottocento come risposta alla persistenza dell’antisemitismo europeo e ai limiti dell’emancipazione liberale, comprendeva al suo interno correnti ideologiche diverse e spesso in conflitto tra loro. Accanto al sionismo politico di Theodor Herzl, orientato verso la creazione di uno Stato ebraico attraverso la diplomazia internazionale, si sviluppò un potente sionismo di sinistra che combinava l’aspirazione nazionale ebraica con ideali socialisti e internazionalisti. Figure come Moses Hess, Ber Borochov e Aaron David Gordon elaborarono visioni del futuro Stato ebraico come società egualitaria, basata sulla cooperazione e aperta alla convivenza con la popolazione araba palestinese.

Questa componente progressista del sionismo trovò la sua espressione più concreta nel movimento dei kibbutz, comunità agricole collettiviste che rappresentavano un esperimento sociale radicale di vita comunitaria. Molti dei fondatori di questi insediamenti erano animati da ideali di giustizia sociale e di fratellanza universale che andavano ben oltre il nazionalismo etnico. Il partito laburista israeliano (Mapai), che dominò la politica israeliana nei primi decenni di vita dello Stato, era erede di questa tradizione socialista sionista. Ridurre dunque il riconoscimento di un focolare ebraico in Medio Oriente alla sola dimensione coloniale o confessionale significa quindi ignorare la ricchezza e la complessità di un movimento che comprendeva al suo interno visioni diverse del futuro della Palestina. È importante notare che molti dei protagonisti della costruzione dello Stato israeliano erano laici, socialisti e internazionalisti che vedevano nello Stato ebraico non una teocrazia, ma una risposta laica e moderna alla questione ebraica europea.

Un altro elemento spesso frainteso nel dibattito riguarda la natura dell’identità ebraica e, di conseguenza, del carattere ‘ebraico’ dello Stato di Israele. L’equiparazione di Israele a uno Stato confessionale cristiano o islamico rivela una comprensione limitata della specificità dell’esperienza ebraica storica. L’ebraismo, infatti, non si esaurisce nella sola dimensione religiosa, ma comprende elementi etnici, culturali, linguistici e nazionali che lo rendono un fenomeno sui generis nel panorama delle identità collettive moderne. Per molti ebrei, specialmente quelli coinvolti nel movimento sionista, l’identità ebraica rappresentava prima di tutto un’appartenenza nazionale e culturale, indipendentemente dalle credenze religiose individuali.

Questa peculiarità rende problematica l’applicazione di categorie interpretative standard (religioso/laico, etnico/civico) all’identità ebraica e, di conseguenza, alla natura dello Stato israeliano. Il carattere ebraico di Israele non può essere compreso esclusivamente come confessionalismo religioso, ma deve essere inquadrato nel contesto più ampio della costruzione delle identità nazionali moderne e delle risposte alla secolare condizione di minoranza degli ebrei nella diaspora. Riconoscere la complessità storica del sionismo non significa ovviamente chiudere gli occhi sulle derive che hanno caratterizzato la politica israeliana negli ultimi decenni. L’occupazione dei territori palestinesi iniziata nel 1967, l’espansione degli insediamenti, le politiche di discriminazione sistemica nei confronti dei palestinesi e la crescente influenza della destra nazionalista e religiosa hanno tradito molti degli ideali progressisti che avevano animato le generazioni fondatrici

L’attuale governo israeliano, dominato da forze di estrema destra e da partiti religiosi fondamentalisti, rappresenta una deriva autoritaria e suprematista che ha poco a che fare con il sionismo socialista delle origini. Le politiche di apartheid nei territori occupati, la negazione dei diritti fondamentali ai palestinesi e la retorica dell’espansionismo territoriale hanno trasformato Israele in quello che molti osservatori internazionali definiscono uno Stato di apartheid. Dobbiamo però distinguere tra la critica legittima (sacrosanta!) di queste politiche concrete, e la delegittimazione dell’intero progetto di autodeterminazione ebraica.

La lotta contro le derive razziste e suprematiste deve andare di pari passo con il riconoscimento del diritto all’esistenza di entrambi i popoli e alla loro autodeterminazione nazionale. Alcune narrazioni anti-sioniste contemporanee, pur partendo da critiche più che condivisibili delle politiche israeliane, finiscono per cadere in paradossi logici che ne compromettono la credibilità analitica e politica: l’equiparazione del sionismo al nazismo, proposta da alcuni critici, rappresenta non solo un’aberrazione storica ma anche una forma di negazionismo che minimizza la specificità dell’Olocausto e della persecuzione antisemita.

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