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Fu scritto nel marzo del 1915 Esame di coscienza di un letterato, ovvero pochi giorni prima che l’autore, il trentenne Renato Serra, venisse inviato, in qualità di ufficiale, su quel fronte dell’Isonzo che si sarebbe rivelato fatale (morì infatti combattendo sul monte Podgora). Il saggio venne subito pubblicato sulla rivista Voce, che lo giudicò uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento. In quest’opera Serra travasò la vocazione autobiografica e lirica tipica dei “vociani”, nonché gli estri e gli umori di un uomo di finissima sensibilità. Sono pagine critiche caratterizzate da un andirivieni di descrizioni paesistiche in cui si compie una sintesi tra la vocazione del critico letterario e il talento dello scrittore.
Spicca, in questo esame di coscienza, la consapevolezza di un’amara solitudine che si manifesta nell’incapacità di aderire alla vita e di socializzare con gli altri.
Serra avverte con acuto disagio i limiti della sua condizione di letterato, le pastoie del carcere di inchiostro, sperimentando su un duplice piano le carenze di tanta letteratura. Da un lato, egli rifiuta i miti attivistici ed estetizzanti, che si specchiano nella narrativa dannunziana e nell’ideologia futurista; dall’altro, recalcitra di fronte alle angustie legate alla sensibilità decadente e ad un solipsismo che riduce il magma della vita a letteratura di rarefatta purezza.
Nel saggio Serra non risparmia strali né a D’Annunzio né ad altre illustri personalità del tempo. Il vate, scrive, con il passare del tempo “non è cresciuto di nulla”. Le sue frasi suonano sempre vecchie e false. Per lui “non cambia mai niente”. Il critico è poi severo con Benedetto Croce, “sequestrato in un’acredine di pedagogo fra untuoso e astioso”. Egli “si degna di consolare le nostre angosce dall’alto della sua filosofia, sicuro che tutto alla fine è e non può essere, anche in questa guerra, altro che bene, vantaggio, progresso”. Sollevando lo sguardo e ponendosi su un piano “cosmico”, Serra, con un tono di corrucciato risentimento, scrive: “Io non faccio il profeta. Giudico le cose come sono. Vedo questa terra che porta il colore disseccato dell’inverno. Il silenzio fuma in un vapore violetto degli avanzi del mondo dimenticato al freddo degli spazi. Non vedo le tracce degli uomini. Le case sono piccole e disperse come macerie. E la vita continua, attaccata a queste macerie, incisa in questi solchi, appiattata fra queste rughe, indistruttibile”. Nel segno, dunque, di un forte pessimismo, si fondono il rigore della prosa e l’afflato della poesia. Ma il pessimismo di Serra non esclude uno spiraglio di luce. “La guerra ha provocato devastazioni, eppure - sottolinea il critico - la vita è rimasta irriducibile  nella sua animalità istintiva e primordiale, per cui la vicenda del sole e delle stagioni ha più importanza di tutte le guerre, che sono percosse sorde le quali si confondono con il dolore fatale del vivere”.
Serra debella - nel segno di una lucida e penetrante analisi che ha l’acre sapore della requisitoria - tutti gli argomenti a favore della guerra, denunciando la follia cha la ispira e l’alimenta. In questa decisa e fiera opera di demolizione, egli non rinuncia a tenere viva la fiamma delle proprie passioni etiche e civili. Così dichiara: “Non ho distrutto quello che era nella mia fibra mortale, che è più elementare e irriducibile, la forza che mi stringe il cuore. È la passione. Non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione. Io sono contento, oggi”.
Lo scrittore poi si chiede che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage, quando i morti dormiranno sotto le zolle, e l’erba sarà tenera e lucida, piena di silenzio e della luce della primavera, che è sempre la stessa.
Gabriele Nicolò