Era il 1943 quando il critico Lionel Trilling definì Edward Morgan Forster “l’unico scrittore vivente degno di essere letto e riletto” e “l’ultimo scrittore dalle cui opere si finisce sempre per imparare qualcosa”. Tale valutazione destò scalpore perché all’epoca le figure dominanti il panorama letterario erano Hemingway e Faulkner, e la critica tendeva a non considerare altre penne. Tuttavia Trilling chiosava il suo elogio con una nota di rammarico: “Il grande difetto di Forster è che non vorrà mai diventare un grande scrittore. Lo è, ma non lo vuole diventare”. Giudizio profetico, se per grandezza s’intende la conoscenza immediata da parte del vasto pubblico dei lettori che subito si destano e manifestano consapevolezza quando sentono pronunciare un certo nome. E così se si dice Hemingway, tutti sanno chi è; se si dice Forster, si evoca un nome che richiede la competenza dell’esperto, o quasi.
Il rammarico di Trilling è anche il rammarico di tutti coloro che hanno letto e apprezzato le opere dello scrittore britannico. L’incisiva caratterizzazione dei personaggi e degli ambienti; l’analisi introspettiva che fruga nelle coscienze mettendo a nudo debolezze e viltà; la denuncia di falsi ideali che finiscono per corrompere anche i propositi più nobili: sono questi i tratti salienti che fanno di Forster una figura di primo piano nello scenario letterario.
Da principio lo scrittore non aveva le idee chiare. Sperimentò vari generi e svolse vari ruoli nel mondo accademico prima di convincersi che il romanzo rappresentava il migliore strumento per esprimere il suo talento. Questa valutazione non toglie alcun merito alle illuminanti lezioni di letteratura e alle conferenze dedicate all’arte italiana. Ma quando nel giugno del 1910 pubblicò “Casa Howard”, il successo gli arrise senza riserve. Nel romanzo domina il tema delle relazioni fra persone di classi sociali diverse: relazioni immancabilmente irte di difficoltà, segnate da nocive incomprensioni e minate da infingimenti e sospetti. Due anni prima si era imposto all’attenzione generale dando alle stampe “Camera con vista”, che narra la storia di Lucy, una giovane donna cresciuta nella cultura repressa dell’Inghilterra dell’età edoardiana. Si tratta di un romanzo di formazione, perché segue l’evoluzione della protagonista, da un’impostazione guardinga e schiva ad una dimensione più libera, nonché più aperta alle istanze e ai moti naturali della vita. Lucy sarà costretta a misurarsi con le pastoie della formale educazione borghese e con la repressa morale vittoriana, e sceglierà infine di seguire il proprio cuore sfidando le convenzioni sociali. Alcuni critici scrissero che si trattava di un’opera di alto valore, ma prima di sentenziare che l’autore fosse degno di lode era necessario un altro romanzo che confermasse il successo del precedente. E così Forster scrisse “Casa Howard” proprio per vincere la resistenza degli scettici.
Il romanzo riscosse un plauso stentoreo, ma a quel punto lo scrittore si rintanò, e non cavalcò l’onda della fama. Riecheggia allora il senso sotteso alle parole di Trilling: Forster aveva paura di essere riconosciuto un grande scrittore. E quando, nel 1924, pubblicò il suo ultimo romanzo, “Passaggio in India”, lo scrittore fu di nuovo acclamato da critica e pubblico. Era tuttavia troppo tardi per crogiolarsi al calore dell’ammirazione altrui. Si stavano lentamente spegnendo le luci della ribalta: quelle luci che egli stesso aveva contribuito a tenere velate.
Da allora non produsse più romanzi, limitandosi a comporre articoli per giornali, saggi di carattere storico, riflessioni di viaggio. Materiale sicuramente interessante, ma ben lontano dalla dimensione del capolavoro. Ne aveva già scritti tre: per lui, così schivo riguardo alla notorietà accecante, potevano bastare.
Gabriele Nicolò